Rendiamo pubblica la relazione del Prof. Francesco Natalini, Tecnico indicato da ASSO, a presenziare alla Commissione in Senato sulla proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio Europeo, riguardante i salari minimi adeguati nell’Unione Europea – Audizione Senato – 13 gennaio 2021

Nel ringraziare la Commissione per avermi invitato, anzi di avermi re-invitato visto che fui convocato, sempre sul tema del salario minimo, nel mese di marzo del 2019, preciso che questo intervento (rispetto a quello precedente dove venni a titolo personale) mi è stato sollecitato dalla Confederazione ASSO che, ovviamente ringrazio e della quale mi faccio portavoce dopo aver condiviso la linea interpretativa.

Dal primo intervento ad oggi

Nel primo intervento, ormai risalente a quasi due anni fa, all’o.d.g., c’erano i due DDL (Movimento 5 stelle e PD) per l’appunto sul salario minimo, fissato in entrambi i progetti di legge, in 9 euro l’ora (ancorché con valenze diverse dal punto di vista fiscale e previdenziale). 

Nel periodo intercorso dalla mia prima audizione (a parte l’avvento devastante del Covid), si registra questa ultima novità rappresentata dalla bozza di direttiva comunitaria (n. 2020/0310), peraltro sollecitata dalla stessa presidente Van der Leyen, che in un discorso sullo stato dell’Unione dello scorso settembre, ha ribadito il suo pensiero (espresso fin dal giorno dell’insediamento), volto a combattere il c.d. “dumping salariale” che distrugge la dignità del lavoro, penalizzando l’imprenditore che paga salari dignitosi, falsando la concorrenza leale nel mercato unico, al punto da rendere necessaria l’introduzione di  salari minimi, che lo si voglia fare per via legale o  pattizia (cioè attraverso la contrattazione collettiva).

Salario minimo

A mio parere, trattasi di una (bozza di) direttiva abbastanza permissiva, per così dire: “soft”,  che lascia, cioè, ampio spazio alle legislazioni nazionali, in primis nell’individuare il metodo per addivenire ad una soglia salariale minima, scegliendo tra le 2 richiamate opzioni: fissare un salario minimo per legge (come hanno fatto 21 paesi), oppure stabilirlo attraverso la contrattazione collettiva (come invece hanno fatto 6 paesi, tra cui l’Italia) e, soprattutto, demanda alle leggi dei singoli paesi la fissazione dei  valori ed i parametri temporali di riferimento (es. orari o mensili). 

Tutto ciò in linea con l’art.153, paragrafo 1, lettera b) del TFUE, che consente alle direttive comunitarie di disciplinare le sole “condizioni di lavoro”, ma non di fissare parametri retributivi specifici,  che restano nelle competenze dei singoli Stati.

E’ indubbio, però, stante la situazione socio/economica dei paesi comunitari, che i valori salariali non possono che essere diseguali, passando ad esempio dai 235 euro mensili approvati della Bulgaria ai 1999 euro del Lussemburgo.

aula del Senato della Repubblica ItalianaTutela del lavoro

Quello che si prefigge la direttiva (come si diceva, al momento ancora in bozza) è quello di migliorare l’adeguatezza del salario minimo, aumentare l’accesso dei lavoratori alla tutela garantita dallo stesso salario minimo, promuovere la contrattazione collettiva sui salari in tutti gli Stati membri, facilitare che nello stato membro non vi siano diseguaglianze e che si tuteli tutto il lavoro, quindi anche le forme speciali ed atipiche (lavoro intermittente, voucher, lavoro domestico, ecc.).

Ricordando che le direttive comunitarie vanno di norma recepite con leggi nazionali (solo in casi particolari il Giudice potrebbe, in difetto, applicarle direttamente) e tenendo conto che questa di cui stiamo parlando, come si è detto, lascia libertà d’azione alla legge interna, mi sembra opportuno tornare ai Disegni di legge nazionale per comprendere quali siano i punti di forza e le criticità.

Mi rendo conto che il tema centrale da discutere dovrebbe essere la bozza della Direttiva, e non vuole da parte mia essere un modo per sviare l’argomento all’o.d.g., ma se dalla direttiva estrapoliamo i due punti che ritengo fondamentali, di cui si è fatto cenno in precedenza, vale a dire: 

1) modalità di individuazione (per via legale o pattizia) del salario; 

2) quantum, 

entrambi  demandati alle singole legislazioni degli Stati membri, resta  al momento una bozza di provvedimento comunitario, condivisibile in tutti i suoi punti precettivi e programmatici, ma che non sembra incidere in modo diretto, o per meglio dire, immediato, sulle vicende di casa nostra. Quindi, a mio parere, prima bisogna risolvere il problema interno e valutare il da farsi, pur sempre senza perdere di vista la direttiva, evitando in particolare che si creino  “grandi differenze” nelle norme per l’accesso ad un salario minimo, perché queste potrebbero rientrare nella competenza giuridica della stessa, atteso che integrano, per assimilazione, il concetto di “condizioni di lavoro”.

Soglia minima e condizioni di lavoro

Ovvio che, da un punto di vista concettuale, non si veda come non si possa essere d’accordo con il fatto di individuare una soglia minimale al di sotto della quale non si può scendere, per dare dignità al lavoro ed evitare condizioni di sfruttamento, di concorrenza sleale, tra chi eroga retribuzioni adeguate e chi no. Credo che sia un principio di civiltà ed è paragonabile, a titolo di esempio, alla comparazione tra chi paga le tasse e chi invece evade falsando parimenti la concorrenza.

Quello che mi spiacerebbe però (e qui parlo come operatore giuridico che poi deve confrontarsi nell’attività professionale quotidiana “sul campo”, con gli effetti “reali”, soprattutto  sotto il profilo del contenzioso) è che si buttasse nella mischia un provvedimento legislativo, tanto per essere allineati con i 21 paesi che hanno già provveduto, senza aver prima ponderato i pro e i contro, soprattutto alla luce della direttiva nascente che, come si è detto, lascia l’alternativa di inserire un salario minimo anche per via contrattuale. 

Perché, a mio parere, il vero problema è come conciliare l’eventualità di inserire una soglia minima legale con l’attuale panorama legislativo/costituzionale, che nel nostro paese è, tanto per non smentirsi, estremamente contorto e complesso, per certi versi anche contraddittorio, contemplando: 

– una norma costituzionale: l’art.36, che, di fatto,  già impone un precetto (la c.d. equa retribuzione), ancorché non facilmente quantificabile (quindi in Italia, checché se ne dica,  un “salario soglia” di matrice legale esiste già);

– norma (sempre di rango costituzionale) ad oggi ancora incompiuta, come l’art.39, che non ha permesso ai sindacati post-corporativi di stipulare contratti ad efficacia erga-omnes, ma che sembra non aver preoccupato più di tanto i medesimi sindacati, che sanno di contare su una sostanziale equazione (ancorché non totalmente verificata) tra equa retribuzione ex art.36 = retribuzione derivante dal CCNL;    

– norme che, in ragione della richiamata impossibilità di obbligare “in via diretta” il DDL non iscritto alle associazioni di categoria stipulanti ad applicare la contrattazione collettiva (anche per la parte normativa),  hanno agito con la logica del do ut des mettendo lo stesso datore nella condizione di dover decidere  se godere di prerogative (es. partecipazioni appalti pubblici), di agevolazioni  (benefici contributivi e normativi), applicando però i contratti collettivi c.d. rappresentativi (c.d. “leader”), ovvero rinunciarvi; 

norme che, in barba a tutto quanto si è detto (cioè l’inefficacia erga omnes degli attuali CC e applicazione degli stessi che può essere proposta solo come “merce di scambio” per godere di vantaggi/benefici), hanno “disinvoltamente” intrapreso la strada dell’obbligo diretto (in primis l’art.3 della legge 142/2001 in tema di soci di cooperative),  addirittura anche estendendolo alla parte “normativa” del CC (vedasi l’art.20 della legge 81/2017 sullo smart-working, l’art.13 del D.Lgs 112 e l’art.16 del D.Lgs 117 sugli ETS), dove nemmeno l’art.36 si spinge, visto che esso si limita a contemplare, semmai, solo la parte economica del contratto collettivo. 

Rappresentatività sindacale

Mettiamoci anche lo “spauracchio” dell’art.603 bis del CP che considera indice di sfruttamento la reiterata corresponsione di trattamenti economici “palesemente” difformi dai CCNL o CC territoriali, stipulati sempre dalle OO.SS. rappresentativi, e si può avere forse, ancorché sommariamente, un quadro della contorta e contraddittoria situazione nazionale.

A complicare la vicenda, ove ce ne fosse bisogno, aggiungo l’annosa questione, ancora irrisolta,  della “rappresentatività” sindacale. 

Oggi, come si è detto poc’anzi, un datore di lavoro che non  applichi un CC “rappresentativo” potrebbe rischiare  addirittura di subire pesanti conseguenze penali, ferme restando le conseguenze civilistiche (es. restituzione di sgravi), ovvero non poter derogare a molte disposizioni di legge in materia giuslavoristica. Nondimeno, non esiste ancora un censimento attendibile della “pesatura” sindacale (e qui siano di nuovo di fronte a disposizioni “incompiute”,  visto che è dal 2011 che si è partiti con il progetto di utilizzare i flussi Uniemens, inizialmente inserito all’interno dell’AI del 28.06.2011, che è poi sfociato nel protocollo sulla rappresentatività del 2014 per giungere al protocollo tra Ministero del lavoro e parti sociali del 19.09.2019, ma, ad oggi non si è ancora fatto nulla di concreto). Questo dà ulteriormente l’idea della contorta situazione vigente nel nostro paese.

Salario minimo: quale il vero problema?

In pratica,  la nostra disciplina in materia salariale, si basa su un delicato sistema di “pesi e contrappesi” che garantiscono, però, un equilibrio precario, instabile, al punto che muovendo una delle pedine, si rischia di far cadere il castello (purtroppo) di carta.

Ecco, questo, secondo me, è il vero problema: come in tutto questo sistema di pesi e contrappesi, possa inserirsi un salario minimo, se si decide di stabilirlo per legge,  che mantenga tale equilibrio. Ovviamente, un ruolo importante, a tal fine, lo gioca il valore che verrà attribuito.

I punti critici sono, infatti, molteplici:

Salario minimo = salario equo ex art.36 Cost. ?  Nonostante i 2 DDL citati (n.310 e 658) considerino il salario minimo attuativo dell’art.36, a me verrebbe da dire di no: l’equità che consente di godere di una retribuzione che permetta di condurre una esistenza libera e dignitosa, come dice la Costituzione, sembra collocarsi  al di sopra del concetto di “minimo”. Se si optasse per questa interpretazione, tra l’altro, forse non si sminuirebbe l’azione del sindacato volta a cercare di migliorare l’importo del salario minimo onde addivenire ad un salario equo (che rispetti l’art.36), avendo la tranquillità di avere comunque un minimo garantito per legge (una sorta di “paracadute”), ma che essendo comunque al di sotto del livello di “equità” li dovrebbe spingere ad attivarsi nella loro azione ed a lottare per raggiungerlo. Passatemi un parallelismo: é un po’ come avviene per quegli investimenti in prodotti finanziari legati all’indice della borsa ma che comunque, mal che vada, ti garantiscono un capitale minimo: anche se poi, al verificarsi di tale condizione, non si può dire di aver fatto un buon  investimento (ma solo di aver contenuto i danni). Va, però, detto, a seguito di un’indagine condotta dalla Commissione che ha predisposto la bozza di direttiva in discussione, che questa soluzione  appare (ovviamente) gradita dalle OO.SS., non gradita, invece, dalle associazioni datoriali.

Sempre a sostegno di una diversità tra i due concetti: salario minimo e salario equo art.36, giova ricordare che la giurisprudenza ha pacificamente stabilito che esistono più “retribuzioni eque” adeguate al parametro costituzionale, cioè che l’equità va ragguagliata alla “categoria” di appartenenza. L’esistenza libera e dignitosa di un dirigente, si raggiungerebbe quindi con un livello retributivo più elevato di quello che serve per un operaio comune, mentre il salario minimo (qualunque sia l’importo che si dovesse stabilire per legge, a giudicare dai DDL presentati) sarebbe invece unico.

A proposito di valori, io non so quale possa essere la soglia più opportuna, ma se andiamo indietro ai due DDL di legge, entrambi proponevano un limite 9 euro/ora, ancorché, in un caso, al lordo delle ritenute previdenziali e assistenziali (Movimento 5 stelle) e nell’altro, invece,  al netto della quota contributiva c/lavoratore (PD). Ma quel valore, da un’analisi fatta (all’epoca della mia prima audizione) sui principali CCNL e supportato da altri studi statistici, molto più accurati del mio,  ci portava a dire che gran parte dei CCNL stavano (perlomeno per i profili più bassi) al di sotto del limite del salario minimo, sicché se si fosse deciso per quell’importo, ci sarebbe stato, paradossalmente, un obbligo di adeguare ex lege la retribuzione verso l’alto per molte imprese. Ma le stesse imprese potevano e, a maggior ragione, possono (con la situazione che stiamo vivendo) permettersi un incremento (che in alcuni casi potrebbe non essere marginale) del costo del lavoro già di per sé elevato e non tanto per la parte salariale quanto per gli oneri riflessi? Mi viene in mente il settore domestico che vedrebbe raddoppiare i costi retributivi per colf e badanti, alimentando sicuramente forme di lavoro nero. Ecco perché, a mio parere, la quantificazione del salario minimo legale dovrebbe scaturire dopo aver esperito un dibattito tra parti sociali, Governo, Parlamento, operatori economici ed altri stakeholder. A mio parere, le stesse parti sociali nonostante siano chiaramente più “sul pezzo”  avrebbero comunque difficoltà ad individuare un quantum congruo, atteso che i settori merceologici sono diversi e presentano squilibri fisiologici,  anche dal punto di vista geografico, mentre il livello del salario minimo sarebbe “unico”.  Ecco perché sarebbe opportuno, sulla base di una ponderazione (basata su un campione rappresentativo desunto dai CCNL) collocarlo al di sotto della soglia ex art.36 Cost. Non sarebbe inoltre azzardato, a mio parere,  ipotizzare anche una suddivisione del salario minimo (oltre che per categoria di lavoratori) anche, quantomeno, sui 4 settori merceologici: industria, terziario, artigianato, altre attività.

Si confida che, con la previsione di un salario minimo imposto per legge, si possa combattere il diffondersi dei c.d. contratti “pirata”, cioè quei contratti collettivi che impongono condizioni economiche “capestro”, penalizzanti per il lavoratori, tali da non remunerare in modo dignitoso il lavoro svolto. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Che basti una soglia salariale prevista per legge ? Teniamo conto che, in fondo,  come si diceva in precedenza, il nostro ordinamento non è tenero nei confronti di chi adotta i c.d. “contratti pirata”: 1) esiste già il precetto ex art.36 che già impone il rispetto di una retribuzione equa (che è sicuramente superiore a quella emergente dei citati contratti); 2) che applicando tali contratti collettivi (verosimilmente non rappresentativi) si rischia di restituire benefici contributivi e normativi indebitamente goduti; 3) che si potrebbe anche ricadere in ipotesi di reato ex art. 603 bis; 4) che i contributi vanno comunque sempre calcolati sui CC “leader”,  ai sensi dell’art.1 della legge 389/89;  nondimeno non sembra che ci sia quel gran timore e i contratti pirata continuano, purtroppo, ad operare ed imperversare.

Da ultimo, parlare nel 2021 ancora di retribuzione “oraria” (a prescindere che bisogna chiarire se si debbano comprendere o meno i ratei di mensilità aggiuntive, ovvero se si debba o meno considerare il TFR), si pone in controtendenza rispetto ad un modello produttivo che, supportato anche dall’avvento di nuove modalità di lavoro (vedasi lo smart-working), tende ad allontanarsi sempre più dal concetto temporale di “ora di lavoro”.

Conclusioni

Quindi, in conclusione, il mio consiglio può essere così sintetizzato:  se si decide di optare per il salario minimo di fonte legale, ancorarlo ad un importo che sia al di sotto del parametro equo ex art.36, onde permettere di mantenere vivo il dibattito sindacale, e soprattutto per non far andare fuori mercato alcuni settori, in ragione dell’unicità del valore stabilito.  Peraltro, però, se si decidesse per il salario unico, è inevitabile che in determinati settori si vada al di sotto della retribuzione equa (se vale il parallelismo, ancorché imperfetto, tra retribuzione ex art.36 e retribuzione dei CC), mentre, in altri comparti, la stessa dovrebbe  essere adeguata, perché quella contrattuale sta al di sotto della soglia legale.

Quindi, sulla scorta di quanto appena detto, valuterei l’ipotesi di inserire più salari minimi: ad esempio almeno quattro, in ragione delle 4 categorie legali presenti nell’art. 2095 c.c.: dirigenti, quadri, impiegati e operai, ed altrettanti per i macro-settori dell’economia (industria, terziario, artigianato, altre attività), magari prevedendo un’eccezione (o una deroga) per il lavoro domestico ed altri settori che non sarebbero in grado di sostenerne gli effetti.   

Ringraziandovi per l’attenzione porgo i miei più cordiali saluti e resto a disposizione per qualunque necessità.

Dr. Prof. Francesco Natalini, Giuslavorista